Lo scorso 1 luglio 2025 la Scuola Superiore dell’Università di Catania ha ospitato in occasione del colloquium “Peer-review trough history” il dott. Alberto Moscatelli, caporedattore di Nature Nanotechnology, una delle riviste di punta del gruppo Nature dedicate alla scienza dei materiali su scala nanometrica (un milionesimo di millimetro per intenderci).

Oggetto del colloquium un tema di grande attualità e di profonda rilevanza storica: il processo di revisione tra pari, peer-review, che sta alla base della pubblicazione scientifica moderna. Il dott. Moscatelli ci ha guidato in un affascinante percorso che parte dal 1665, anno della fondazione del primo giornale scientifico in senso moderno, The Philosophical Transactions of the Royal Society, fino ai giorni nostri. È stato un viaggio che ha ripercorso la storia della pubblicazione scientifica, il cui corso degli eventi riflette tematiche complesse, tra cui i mutamenti della società stessa, l’evoluzione delle comunità scientifiche, la crescente specializzazione dei ricercatori, la nascita dell’editoria scientifica moderna e tanto altro.

È interessante notare come il termine “peer review” sia comparso solo negli anni ’70 negli Stati Uniti, a conferma del fatto che ciò che oggi consideriamo “standard” ha in realtà una genesi storica ben più recente e articolata. Ad esempio gli storici della fisica ritengono con buon accordo che soltanto uno dei più di 300 articoli di Albert Einstein sia stato sottoposto a peer review, per esattezza uno del 1936 sulle onde gravitazionali, in collaborazione con Rosen (lo stesso del paradosso Einstein-Podolski-Rosen).

Questo sistema, considerato oggi il pilastro della credibilità scientifica, è però sotto pressione. Infatti, tra richieste di maggiore trasparenza, problemi di riproducibilità, conflitti di interesse e un crescente carico di lavoro per i revisori, sono numerose le voci che mettono in discussione l’idoneità del sistema nel garantire rigore, qualità e libertà nella scienza contemporanea.

Il dott. Alberto Moscatelli, da osservatore diretto di questi processi all’interno del gruppo Nature, ci ha offerto una prospettiva preziosissima non solo per comprendere come siamo arrivati fin qui, ma anche per immaginare come potremmo migliorare il sistema che regola la validazione e la diffusione della conoscenza scientifica. È stata un’occasione, quindi, per riflettere sull’attuale processo di revisione tra pari, non come meccanismo statico, ma come pratica culturale e sociale in continua trasformazione, da interrogare e ripensare insieme. L’incontro è stato anche un’opportunità per poter rivolgere al Dott. Alberto Moscatelli alcune domande sul proprio lavoro e sul tema del colloquium.

Alla luce del processo di revisione tra pari, qual è il compito del caporedattore di una rivista scientifica?

Direi che il compito di un redattore scientifico è paragonabile a quello di un giudice che si trova tra due parti: l’autore e il revisore. Quando questi due si confrontano, spesso emerge la necessità di un terzo attore che faccia da mediatore. È qui che entriamo in gioco noi, gli editori: cerchiamo di equilibrare le posizioni e di facilitare il dialogo tra autori e revisori.

Questo è, per così dire, l’aspetto più basilare del nostro lavoro: riceviamo un manoscritto, lo affidiamo ai revisori, che forniscono commenti e critiche, e ci occupiamo di gestire questo scambio, spesso anche cercando compromessi.

Ma c’è una seconda parte del ruolo, altrettanto importante: costruire una rivista scientifica che sia un punto di riferimento per la comunità di studiosi. Significa curare con attenzione la selezione degli articoli, individuando quali ambiti stanno emergendo, quali stanno crescendo e quali invece risultano ormai saturi. Questo processo di scelta è fondamentale per offrire un contenuto che rispecchi e serva al meglio la comunità scientifica.

In sintesi, il lavoro del caporedattore è ampio e complesso: non si riduce a poche azioni standard, ma richiede un continuo destreggiarsi tra autori, revisori e temi di ricerca, svolgendo anche un ruolo di filtro e orientamento rispetto a ciò che merita di essere pubblicato.

A tal proposito, quali sono i principali fenomeni sociali e culturali che hanno contribuito alla nascita del processo di revisione tra pari?

Il processo di peer-review, così come lo conosciamo oggi, è in realtà relativamente recente: si è affermato negli anni Settanta. Per dare un’idea, Nature adottò un vero e proprio sistema strutturato di revisione solo in quel periodo. Questo significa che articoli fondamentali come quello sulla struttura del DNA o la legge di Bragg della cristallografia furono pubblicati senza passare attraverso un processo formale di revisione tra pari.

Considerando che l’editoria scientifica ha ormai una storia di oltre 350 anni, il modello attuale è piuttosto nuovo. Naturalmente, non è nato dall’oggi al domani: si è sviluppato gradualmente. All’inizio c’era un singolo editore che decideva in autonomia cosa pubblicare; in seguito, un gruppo di editori cominciò a condividere questa responsabilità. Poi, con l’aumentare della complessità e della specializzazione della scienza, si è sentita l’esigenza di coinvolgere esperti esterni per valutare i lavori prima della pubblicazione.

È stata quindi un’evoluzione progressiva, che ha raggiunto la sua forma compiuta solo negli anni Sessanta e Settanta. Oggi la peer-review è un meccanismo complesso, con vantaggi e limiti, ma resta probabilmente la migliore alternativa a nostra disposizione per garantire la qualità della letteratura scientifica.

In che modo le dinamiche di potere, le gerarchie accademiche e i conflitti di interesse possono condizionare l’esito delle revisioni tra pari?

È una domanda delicata. In linea generale, possiamo distinguere due modelli di peer review: da un lato, quello condotto da redattori che sono anche ricercatori attivi; dall’altro, quello gestito da figure esterne al mondo accademico. Nel primo caso, il rischio di conflitto di interesse è evidente: chi decide cosa pubblicare potrebbe avere un ritorno diretto sulla propria carriera o sulla propria linea di ricerca.

Ciò che caratterizza, ad esempio, Nature e i Nature Journals è invece il fatto di affidarsi esclusivamente a redattori professionisti, a tempo pieno, che non svolgono attività di ricerca. Questo rappresenta una grande tutela, poiché non c’è alcun vantaggio personale nel pubblicare un articolo piuttosto che un altro: non ci sono dinamiche di potere che possano interferire con il giudizio.

Diverso è il discorso per i revisori, che sono sempre ricercatori attivi. Essi valutano i manoscritti e ci forniscono indicazioni sulla validità scientifica e sull’originalità dei lavori. Naturalmente, si tratta anche di giudizi soggettivi: stabilire quanto un articolo sia innovativo, ad esempio, può dipendere dalla prospettiva del singolo revisore.

Per ridurre al minimo questi rischi, utilizziamo almeno tre revisori per ogni articolo. In questo modo, se uno di loro dovesse avere motivi personali per ostacolare un lavoro o atteggiamenti di ostruzionismo, è possibile bilanciare il suo giudizio con quello degli altri. È una sorta di “piccola statistica” che ci aiuta a navigare tra possibili conflitti di interesse.

Qual è il ruolo delle riviste open access e dei preprint nel mitigare le limitazioni del processo tradizionale di peer review?

Noi di Nature siamo assolutamente favorevoli all’utilizzo di tali strumenti: incoraggiamo gli autori a diffondere i propri lavori anche attraverso queste piattaforme, perché riteniamo che arricchiscano il dibattito scientifico e favoriscano la circolazione rapida delle idee.

Detto ciò, va chiarito che i preprint esistono in un contesto diverso rispetto agli articoli sottoposti a revisione. Il processo di peer review, infatti, mantiene sempre una certa dose di soggettività, che non può essere completamente eliminata. C’è la soggettività del redattore, che seleziona i temi ritenuti più rilevanti; quella dei revisori, che esprimono giudizi basati anche sulla propria prospettiva scientifica; e infine quella degli autori stessi, che pur partendo da dati oggettivi, li interpretano e li presentano in un certo modo.

In altre parole, la soggettività accompagna ogni fase della produzione scientifica. Per questo non credo che strumenti come i preprint possano eliminare del tutto questo elemento umano.

E probabilmente è giusto così, perché la scienza resta un’attività profondamente umana. Tornando al processo di revisione tra pari, quali sono possibili alternative a tale modello di revisione? In particolare, cosa ne pensa del processo di revisione paritaria aperta?

È una questione interessante, perché nella storia della peer review non è mai stato consueto che gli autori conoscessero l’identità dei revisori. Negli ultimi anni, però, questo tema ha conosciuto una forte evoluzione, legata in parte al movimento dell’Open Access e, più in generale, all’emergere del paradigma dell’Open Science. Quest’ultimo include non solo l’accesso aperto agli articoli, ma anche la condivisione dei dati, dei codici, persino degli appunti di laboratorio: un approccio molto più trasparente e collaborativo.

All’interno di questo contesto si colloca anche l’idea di una “open peer review”. Come sempre, ci sono pro e contro. Da parte nostra, in Nature, abbiamo già introdotto alcune forme di apertura: chiediamo, ad esempio, ai revisori se desiderano essere nominati e ringraziati pubblicamente negli articoli.

Più recentemente abbiamo fatto un ulteriore passo avanti: tutti i lavori pubblicati su Nature saranno accompagnati dall’intero percorso di revisione, con i commenti dei revisori e le risposte degli autori. È un cambiamento significativo, direi quasi “disruptive”, nella storia della peer review, che rappresenta un passo importante verso una maggiore trasparenza. Non sono sicuro che si tratti di un primato assoluto per Nature — forse altre riviste hanno adottato soluzioni simili — ma certamente è una scelta pionieristica tra le pubblicazioni scientifiche di maggiore rilevanza.

Per concludere, un’ultima domanda, che esula un po’ dagli argomenti trattati. Quale sarà secondo lei il ruolo dell’intelligenza artificiale nelle scienze dure nei prossimi anni? In particolare, la figura del ricercatore sarà sostituita, oppure dovrà semplicemente adattarsi per lavorare in sinergia con l’intelligenza artificiale?

Questa è una domanda da un milione… È difficile prevedere con certezza come andranno le cose. È chiaro però che l’intelligenza artificiale è l’“elefante nella stanza”: un fenomeno di cui tutti parlano e che sta entrando con forza nel nostro quotidiano, anche se ancora non ne conosciamo pienamente le conseguenze.

Credo che, inevitabilmente, dovremo imparare a lavorare insieme a queste tecnologie. Nel campo dell’editoria scientifica, per esempio, l’IA potrà avere un impatto rilevante: è molto potente nell’analisi dei testi, nella gestione dei dati e in tutte quelle attività ripetitive o quantitative che richiedono tempo agli esseri umani. In questo senso, potrà rappresentare un aiuto concreto nel processo di peer review e nella gestione delle pubblicazioni.

Per quanto riguarda invece la figura del ricercatore, è ancora presto per dire se e come cambierà radicalmente. Probabilmente assisteremo a una trasformazione, ma non credo sia realistico pensare a una sostituzione totale a breve termine. Molto dipenderà dallo sviluppo effettivo delle tecnologie e, parallelamente, dalla regolamentazione che accompagnerà questo processo.

Siamo ancora agli inizi, ma è probabile che nei prossimi due o tre anni vedremo evoluzioni molto rapide. Sarà fondamentale che la riflessione etica e legislativa proceda di pari passo con l’innovazione tecnologica. In altre parole, il futuro è tutt’altro che scritto.

 

Chi è Alberto Moscatelli

Una formazione scientifica solida e interdisciplinare, la sua: si è laureato in Scienze Ambientali all’Università di Urbino e ha conseguito un dottorato in Chimica alla Columbia University nel 2008, occupandosi dello studio di reazioni chimiche confinate in spazi dell’ordine del nanometro. Successivamente, ha proseguito la sua attività di ricerca con un post-doc alla Carnegie Mellon University di Pittsburgh. Nel 2010 è entrato a far parte del gruppo Nature Research, approdando poi a Nature Nanotechnology nel 2012. Dal gennaio 2022 è caporedattore di questa sezione della rivista, ruolo che ricopre dalla sede di Berlino, seguendo da vicino l’evoluzione di questo campo scientifico in rapidissima espansione.

Adriano Biondo, Allievo SSC UniCT

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