“Se vogliamo una generazione responsabile, devono essere responsabili coloro che adesso stanno prendendo le decisioni” questo è il messaggio che lancia al pubblico dei SUPERTalks Pegah Moshir Pour, attivista e scrittrice italo-iraniana, invitando la classe dirigente mondiale ad accogliere le richieste di un mondo radicalmente diverso rispetto ad appena vent’anni fa.
Quella di Pegah, ospite lo scorso 10 dicembre 2025 dei SuperTalks organizzati dalla Scuola Superiore di Catania in occasione della Giornata Mondiale per i Diritti Umani, è una realtà ibrida, multinazionale, che fonde un’identità occidentale con un’anima profondamente iraniana, legata alla terra dove ancora oggi riecheggia lo scalpiccio dei sandali persiani.
A introdurre il talk la Prorettrice, Prof.ssa Lina Scalisi, e la Presidente della Scuola Superiore dell’Università di Catania, Prof.ssa Ida Angela Nicotra. Ad accompagnare, invece, Pegah Moshir Pour lungo la sua riflessione e a moderare gli interventi dal pubblico, la giornalista Michela Giuffrida.
Un nuovo patto intergenerazionale
La lontananza geografica dell’Iran è significativamente ridotta da una risorsa preziosa di cui anche il nostro Paese dispone: una generazione attenta e impegnata per costruire il proprio futuro.
Quando le si chiede un bilancio di questo quarto di secolo che tra poco saluteremo con brindisi e auguri, Pegah Moshir Pour risponde con voce tinta di ottimismo: “la Generazione Z – come le piace chiamarla – sta mettendo in discussione uno status quo che non è più adatto a promuovere il benessere collettivo”. A tutti i livelli, lo scontro porterà ad un nuovo “patto intergenerazionale”, necessario perché il peso degli errori passati, di cui si fanno carico le generazioni presenti e future, sia alleviato.
Ciò che rende entusiasta Pegah è che questo scontro è condiviso da tutti. Se è vero che in alcuni paesi, tra cui l’Iran, l’oppressione è una realtà quotidiana, è anche vero che sono tanti coloro che si assumono l’onere sociale della battaglia per il cambiamento. “In una scala da 0 a 10, l’Iran è al decimo posto per violazione dei diritti umani. Ciò non vuol dire che vi sia immobilismo: le donne iraniane trovano comunque il sistema e le strade per esprimersi.”. Ma la cosa più importante è che in questo non sono sole: Pegah ricorda tutti gli uomini che sono al fianco delle donne, che non concepiscono la loro come una battaglia esclusiva del sesso femminile ma come un’impresa collettiva contro un sistema che colpisce e danneggia anche gli uomini. Il movimento Donna Vita Libertà viene infatti citato con ammirazione per il suo impegno nel “riscrivere il proprio paese” superando barriere culturali e religiose e unendo uomini e donne per rivendicare ciò che ritengono giusto.
L’obiettivo è comprendere che lo sforzo deve essere di tutti e per tutti, intraprendendo una strada che possa portare, nei prossimi anni, a coronare obiettivi che nessuno conseguirà al posto nostro.
La paura come strumento di controllo
La discussione con Pegah ha portato a riconoscere quanto questo sforzo sia reso difficile da un contesto internazionale ricco di insicurezze, tensioni e contrasti, spesso alimentati da fazioni e alleanze alla ricerca di un nuovo ruolo mondiale o impegnate nella difesa della propria egemonia. La Repubblica Islamica dell’Iran non è un Paese che fa eccezione: la sua leadership si sente, ed è effettivamente stata, minacciata.
Nel quadro di difficili relazioni con lo scomodo vicino Israele, la guerra dei dodici giorni ed il bombardamento degli impianti di ricerca e produzione nucleare di Esfahan, Natanz e Fordow hanno contribuito ad accrescere un bisogno spasmodico e paranoico di controllo da parte della teocrazia iraniana. Questo bisogno si traduce in una contrazione dei diritti della popolazione, perché l’Iran, afferma Pegah, è un Paese solo.
L’inefficiente sistema pensionistico, le scarse retribuzioni degli insegnanti e la precaria gestione del sistema sanitario sono crepe pericolose del governo di Ali Khamenei, già provato da un esteso, ma non totale, isolamento internazionale e dalle lotte intestine nelle regioni di Sissan (Iran) e Baluchistan (Pakistan), alle quali vanno aggiunte le difficoltà causate dal Kurdistan iraniano.
“Queste difficoltà sono insostenibili, e la risposta del regime agonizzante è la repressione: esecuzione, arresti e impiccagioni”: questo allarme è lanciato per fare luce non solo su episodi felici come la corsa delle donne iraniane dai capelli sciolti, ma anche sulla realtà di un Paese che dal gennaio 2025 ha eseguito 1700 condanne a morte tramite esecuzioni di massa e impiccagioni. La paura è l’ultima, potente risorsa dell’Iran secondo Pegah.
Alla condanna al regime si unisce anche l’Europa, efficacemente, a condizione che le posizioni prese sul piano politico abbiano ripercussioni anche sulla sfera economica e diplomatica, in uno sforzo coerente e unitario che si distacchi dagli atteggiamenti ambivalenti talvolta assunti da altri continenti.

Elio Militello, allievo SSC UniCT
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