Leggere Dante: il valore simbolico degli animali presenti nel canto VIII dell’Inferno
Quante volte abbiamo sentito dire nella quotidianità “guardare in cagnesco”, “can che abbaia non morde”, “non c’è nemmeno un cane” oppure parole come canaglia? Se si riflette con attenzione su tali parole si può notare come il cane, considerato comunemente il miglior amico dell’uomo, in questi casi abbia un’accezione negativa. Tale associazione non è in realtà una novità. Mentre nei bestiari medievali a questo animale vengono associati valori ambivalenti, nella Bibbia, ricca di riferimenti agli animali, la parola “cane” spesso viene usata come insulto contro i nemici. Con valore dispregiativo questo animale viene inserito anche da Dante nella Divina Commedia, in particolare nel canto VIII dell’Inferno (“Allor distese al legno ambo le mani; / per che ‘l maestro accorto lo sospinse, / dicendo : «Via costà con li altri cani!»). Coloro che Virgilio chiama “cani” sono gli iracondi immersi per la legge del contrappasso nelle acque melmose dello Stige. Durante la traversata della palude, con la barca guidata dal demone Flegiàs, Dante e Virgilio si imbattono in un’anima dannata sporca di fango che si avvicina al Sommo Poeta per chiedergli come sia possibile che si trovi all’Inferno, da vivo. È Filippo Argenti che, dopo aver ricevuto la risposta sprezzante di Dante, cerca di ribaltare la barca. Il pronto intervento di Virgilio, descritto nella terzina precedentemente citata, però impedisce che ciò avvenga. Come si è già accennato, la Bibbia spesso usa la parola “cane”, cui Virgilio nel canto fa riferimento, in modo negativo associandola spesso ai pagani o a chiunque non avrà accesso alla Gerusalemme celeste (Apocalisse 22, 15).
QUANTI SI TEGNON OR LÀ SÙ GRAN REGI...
Nella Bibbia stessa spesso il cane viene identificato con lo sciacallo, che è solito cibarsi di carogne e il cui agire di notte aveva già colpito gli uomini nell’antichità che perciò lo avevano associato al guardiano degli Inferi. Basti pensare a Cerbero, il noto cane a tre teste, presente nella favola di “Amore e Psiche” di Apuleio, nell’Eneide e anche nella Divina Commedia stessa (Canto VI, Inferno), su esempio dell’opera virgiliana. Nel canto VIII dell’Inferno ai dannati non viene però associato solo il cane ma anche un altro animale, ovvero il maiale. «Quanti si tegnon or là sù gran regi/ che qui staranno come porci in brago,/ di sé lasciando orribili dispregi!». A parlare è nuovamente Virgilio. Secondo la concezione medievale il maiale infatti incarnava i vizi peggiori tra i quali, appunto, l’ira. Una prova di tale legame si trova nel Duomo di Fidenza in cui viene inserita la rappresentazione scultorea del maiale, o probabilmente di un cinghiale, sull’arco con le raffigurazioni dei vizi. Mentre nel canto V dell’Inferno il "Dante personaggio" si commuove nel sentire la storia di Paolo e Francesca, in questo canto, in risposta alle parole di Virgilio, esprime il desiderio di vedere il dannato sprofondare giù nel fango (“E io: «Maestro, molto sarei vago/ di vederlo attuffare in questa broda/ prima che noi uscissimo del lago»”).
Il COMPORTAMENTO DI DANTE
Fonte per la simbologia degli animali: Luca Frigerio, Bestiario medievale. Animali simbolici nell’arte cristiana, Ancora, 2014.